Come pregare? A cosa dobbiamo pensare quando siamo davanti al Gohonzon?
All’inizio del capitolo “Hoben” del Sutra del Loto, troviamo scritto: “A quel tempo…”.
"A quel tempo" indica il momento in cui abbiamo qualche difficoltà o vogliamo realizzare un nostro desiderio a ogni costo, sia personale che per kosen-rufu. È un momento chiave e il nostro ichinen in quel momento è determinante.
In quel momento dobbiamo:
1) stabilire lo scopo
2) determinare di realizzarlo
3) recitare Daimoku
4) agire
Solo così facendo si manifesterà l'effetto.
Perché dunque è così importante avere un obiettivo chiaro? Perché Nichiren Daishonin spiega che i desideri terreni sono Illuminazione (bonno soku bodai). Cioè, i desideri in quanto tali non possono essere Illuminazione, ma possono portare all'Illuminazione attraverso la recitazione di Nam-myoho-renge-kyo.
Se una persona non desidera, non può raggiungere l'Illuminazione, perciò utilizziamo bene ogni desiderio. Se recitiamo senza uno scopo il Gohonzon ci chiederà: «Cosa vuoi da me?».
Diceva il secondo presidente Toda: «Per avere successo negli affari o per propagare il Buddismo, ad esempio, dobbiamo nutrire attaccamento per queste attività. La nostra fede fa sì che, anziché lasciarci controllare dai nostri attaccamenti, li usiamo appieno per diventare felici».
Lo spirito del Sutra del Loto consiste nell'utilizzare i desideri e gli attaccamenti come forza motrice e trasformarli in un "vento in poppa" che ci spinge verso la felicità.
Quando preghiamo davanti al Gohonzon dobbiamo prima chiarire: «Che cosa, entro quando, in che modo». Se preghiamo con una decisione e con un obiettivo chiaro, allora si manifesterà la prova concreta.
Anche nella vita quotidiana, se decidiamo "dove andare", stabiliamo entro che ora "prevediamo di arrivare" e "con che mezzo arrivare", giungeremo alla "destinazione stabilita".
È normale che quando non si sa bene dove andare, perché ancora non si è decisa la meta, non si giunga in nessun posto. Anche quando si è decisa la meta, ma non abbiamo previsto quando arrivarci in concreto e non iniziamo a incamminarci, non arriveremo mai.
Se partiamo diritti verso la meta, ma, quando a un certo punto la strada diventa difficile, pensando che non riusciremo mai ad arrivare cambiamo idea oppure per stanchezza smettiamo di proseguire, non avremo nessun risultato.
Solo quando pratichiamo decidendo che cosa, entro quando, in che modo cioè la meta, il tempo di arrivo e l'azione dopo aver pregato, emergerà il beneficio e una chiara prova concreta, cioè arriveremo alla meta così come avevamo deciso.
Se girovaghiamo, senza decidere la meta, per tornare poi indietro, diventa una semplice "passeggiata". L'atteggiamento nella fede caratterizzato da una decisione e da un obiettivo poco chiari si può chiamare fede da passeggiata.
È importante stabilire obiettivi relativi al proprio cambiamento personale (cose da risolvere, cosa trasformare del proprio karma, cose da migliorare, cose che desideriamo realizzare) e contemporaneamente obiettivi di attività buddista per accumulare cause di fortuna.
Se decidiamo gli obiettivi dell'attività, ma gli obiettivi del proprio cambiamento personale sono poco chiari, anche se otterremo il risultato dell'attività non miglioreremo.
Accumulando i benefici ottenuti, la fede si approfondisce.
Accumulando solo esperienze di attività, la fede non si approfondisce ma, al contrario, un giorno nasceranno dubbi; ad esempio, dopo cinque o dieci anni di pratica ci chiederemo: «Ma cosa ho realizzato nella mia vita?».
Perciò non dimentichiamo mai l'eterno principio della Soka Gakkai la fede è uguale alla vita quotidiana.
Si può trasformare l'impossibile in possibile?
Nel Gosho Sulle preghiere Nichiren Daishonin afferma: «Può accadere che uno miri alla terra e manchi il bersaglio, che qualcuno riesca a legare i cieli, che le maree cessino di fluire e rifluire o che il sole sorga a ovest, ma non accadrà mai che la preghiera di un devoto del Sutra del loto rimanga senza risposta» (SND, 9, 182).
Nell'Esegesi del vero oggetto di culto il patriarca Nichikan Shonin scrive: «Se solo prendi fede in questo Gohonzon e reciti Nam-myoho-renge-kyo, anche soltanto per poco, nessuna preghiera resterà senza risposta, nessun peccato rimarrà senza perdono, tutta la fortuna sarà concessa e tutta la giustizia sarà provata».
Naturalmente questo accade quando pratichiamo con una grande convinzione nel Gohonzon, così come afferma il presidente Ikeda: «Pregare, sforzarsi e avere una grande convinzione "affidandosi completamente al Gohonzon" è fondamentale. Quando dal profondo del nostro cuore, recitiamo "nam alla Legge mistica", emergono dalla nostra vita una saggezza e una forza infinita. L'impossibile diviene possibile. La base è sempre la preghiera. Se ci dimentichiamo di pregare e cerchiamo razionalmente dei metodi, finiremo col girare a vuoto, fino ad arrivare a un punto morto».
Recitare "nam alla legge mistica" significa "affidare la propria vita". In altri termini nam significa pregare e affidarsi al Gohonzon.
Quando recitiamo nam al Gohonzon, dal profondo del cuore, emergerà dalla nostra vita una robusta forza vitale e una saggezza al di là di ogni immaginazione e l'impossibile diverrà possibile.
Pur pregando, se una persona continua a concentrarsi solo sul metodo, rimuginando fra sé: «Non so più cosa fare, non so più dove sbattere la testa», gira a vuoto e finisce per trovarsi in un vicolo cieco. Con questo atteggiamento si sta "preoccupando e basta", ha dimenticato il Gohonzon e si sta semplicemente "illudendo".
Decidere di risolvere con la fede vuol dire "preoccuparsi con la fede". Una volta che abbiamo abbandonato tutti gli stratagemmi, attraverso la nostra preghiera si aprirà la strada.
L'importanza di pregare con un forte ichinen.
«Sto pregando intensamente come se dovessi accendere il fuoco con la legna bagnata o estrarre l'acqua dal deserto, affinchè, nonostante questa sia un'epoca di disordini, il Sutra del Loto e le Jurasetsu proteggano ciascuno di voi» (Cancellare le colpe denunciando le offese alla legge, SND, 7, 172).
Questa frase di Gosho insegna che nei momenti critici è necessario recitare Nam-myoho-renge-kyo con questo tipo di ichinen.
Quando abbiamo una grande difficoltà o una sofferenza che non riusciamo a risolvere, o quando non sappiamo più cosa fare, non c'è altra soluzione che, pur sapendo razionalmente che è impossibile, pregare con convinzione così: «Gohonzon, risolverò questo problema a ogni costo!».
Mantenere la determinazione fa nascere la prova concreta.
Se l'ichinen della preghiera è forte, sicuramente realizzeremo il nostro obiettivo. Invece se recitiamo con unichinen debole, pensando per esempio: «Sarebbe bello se andasse così», oppure «Gohonzon aiutami» o ancora «Se faccio Gongyo e Daimoku qualcosa accadrà», non è una preghiera. Inoltre pregare pensando dentro di sé: «Tanto è impossibile»; è uguale a non avere fede nel Gohonzon e allora la nostra preghiera non si realizzerà.
Una fede debole
Una pratica basata sull'inerzia dà vita a un circolo vizioso di inerzia e vacuità. Una preghiera idealistica o senza serietà non darà un effetto chiaro. Ci sono dei casi in cui dubitiamo, pensando: «Mi sto sforzando così tanto nella fede ma i miei desideri non si realizzano». Ma il fatto che non emergano i benefici non è colpa del Gohonzon; è necessaria una riflessione sulla propria fede.
Pensare di realizzare i nostri desideri per il semplice fatto di avere il Gohonzon in casa e di fare Gongyo e Daimoku ogni giorno non è corretto.
Anche se pensiamo: «Mi sto sforzando così tanto!» il punto è «Con che tipo di ichinen ci siamo sforzati fino a ora?». Perché se ci siamo sforzati col senso di dovere, o per inerzia, o credendo in modo formale, non potremo ricevere un vero beneficio. Dovremmo portare avanti una pratica coraggiosa con un ichinen solido e una preghiera chiara e concreta.
Quanto Daimoku è necessario recitare?
È una domanda molto frequente. La quantità di Daimoku non è qualcosa che possono decidere gli altri, ma noi stessi. Quindi, ognuno di noi, riflettendo sulla quantità di Daimoku necessaria per superare un problema o per migliorare se stesso, decida una quantità e si sforzi di metterla in pratica.
Esiste un consiglio tramandato dalla Soka Gakkai di recitare un milione di Daimoku quando c'è un problema da risolvere. Nel mondo della fede non si può paragonarsi agli altri, pensando: «Dato che gli altri recitano tre ore al giorno, voglio fare anch'io così», oppure rivaleggiare, oppure pregare con senso del dovere o in modo formale. Infine non si recita Daimoku fine a se stesso, senza un obiettivo chiaro; è un errore scambiare la quantità di Daimoku per il nostro obiettivo finale e occorre sempre riflettere se la nostra preghiera è concreta o meno.
È importante dunque stabilire autonomamente: «Per risolvere questo problema decido di recitare un milione di Daimoku». Realizzare un milione di Daimoku in tre o sei mesi o in un anno, è sempre una decisione personale. Una volta presa la decisione, se ci si sforza di realizzarla, emergerà l'effetto. Quindi ognuno, mantenendo la propria personalità e organizzando bene la propria vita personale, ritagli il tempo nella sua giornata per pregare seriamente e partecipare con gioia alle attività per la realizzazione dikosen-rufu.
Inoltre è importante tenere a mente che Gongyo non è un dovere ma un diritto per diventare felici. Non dimenticando che lo facciamo per noi stessi, recitiamo Gongyo e Daimoku con una "fede forte" che si manifesta in una "decisione forte". Praticando in questo modo la nostra condizione vitale si innalzerà immensamente.
Quindi quando abbiamo una difficoltà è basilare recitare Daimoku con un obiettivo chiaro, con un forte ichinen (cioè con una ferma determinazione) e con cuore sincero.
(da: "Il nuovo rinascimento", n.314)
Scaturito alle 12:27 | link | commenti (5)
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Le otto sofferenze (II parte)
Non ottenere ciò che si desidera
Una sofferenza che si ricorda di aver provato da quando si ha memoria di sé: desiderare qualcosa e non riuscire a ottenerla. I bambini e le bambine vogliono con tutto il loro essere quando vogliono: anima e corpo, e non c’è altro all’orizzonte se non il loro desiderio. Poi si cresce, e si desidera in maniera più mediata, raffinata, soffusa, anche se la capacità adulta di soffrire per un desiderio inappagato resta sostanzialmente inalterata. Diventa motivo di sfiducia, disperazione, un’ipoteca sull’esistenza. Può condurre a un pessimismo sistematico di fronte a ogni difficoltà, a una fissazione che distoglie da ogni altro aspetto della realtà, alla totale rinuncia a vivere. […]
«Questo Sutra esaudisce i desideri. È l’acqua fresca e limpida del laghetto che placa la sete». Parole di Shakyamuni, scritte nel XXIII capitolo del Sutra del Loto, e riprese da Nichiren Daishonin nel Gosho Risposta a Kyo’o.
Ma se l’acqua del laghetto placa la sete, perché ci si ritrova a bocca asciutta? Se ogni preghiera avrà una risposta, perché la voce sembra rimbalzare su un muro sordo? Esistono forse desideri giusti e desideri sbagliati?
Nichiren lo dice chiaramente: i desideri terreni sono Illuminazione, […] allo stesso modo in cui il Budda e il comune mortale non sono due entità separate, e la vita e l’ambiente del Budda non trascendono l’esistenza dei comuni mortali. […] Però, per avere percezione di questa identità potenziale, occorre ampliare il campo visuale: come dice Nichiren, «purificare i sensi».
Dunque non esistono desideri giusti o sbagliati di per sé. Quello che conta è non rimanere troppo affezionati all’ambito percettivo del presente […] Nichiren ci esorta ad avere fiducia nel fatto che potremmo avere un orizzonte molto più allargato, al cui interno anche i nostri desideri possono mostrarsi sotto una nuova luce. […] Come quando si parte per un viaggio: si mettono in valigia molte cose inutili, e si dimentica sempre qualche cosa di essenziale. Solo al ritorno appare tutto chiaro, mentre prima non si immaginava che, in un altro luogo, i desideri sarebbero stati diversi. In modo altrettanto naturale, nel corso della vita accade che i desideri cambino, cambino le graduatorie e le priorità che si attribuiscono ai sogni e alle necessità. È un percorso fondamentale, da cui dipendono lo spessore e l’ampiezza che prenderà la nostra esistenza.
Quella che va chiarita è la relazione tra noi e il nostro oggetto del desiderio, il modo in cui ci poniamo di fronte a esso e il senso che gli attribuiamo. Illuminare tale relazione è ciò che ci consente di vedere i nostri desideri, perché essi non diventino padroni del nostro destino.
(Marina Marrazzi)
Doversi incontrare con chi si odia
Odio verso chi rispecchia quella parte di sé che non si vuole vedere o riconoscere; rifiuto della diversità, quale che sia; odio verso se stessi o verso gli altri, che arriva fino alla violenza, e in molti casi anche alla morte. Situazioni che hanno tutte, a ben vedere, un denominatore comune. Lo stato vitale. Sconsolatamente relegato nei mondi più bassi.
Cosa significa? Significa che chi non si ama è destinato a incontrarsi. In che modo? Nei modi tipici dei tre mondi inferiori di inferno, avidità e animalità». E questi “modi”, a ben riflettere, possono essere “infiniti” come afferma più avanti lo stesso sutra. Chi “si odia” si può incontrare fisicamente o mentalmente. È, per esempio, possibile tornare continuamente, con il pensiero, a un episodio che si è verificato dieci anni prima, e provare lo stesso sconfinato rancore (Inferno). Si può nutrire il desiderio implacabile di vedere concretizzarsi l’oggetto del proprio odio, anche se nella realtà non esiste, e quindi essere costretti a trovare un responsabile, un colpevole, una causa (naturalmente esterna) alla situazione che si sta vivendo, qualunque cosa sia successa (Avidità). Si può incontrare una persona che scatena odio furibondo per la sua sfacciata fortuna (Avidità). Un’altra che porta via l’uomo o la donna che si ama e che con ciò obbliga – e come potrebbe essere altrimenti? – a detestare persino il muro su cui ha appoggiato la mano (Animalità). […] L’odio e il rancore sono, perciò, espressione dei mondi bassi.
Nel Buddismo il problema di chi riceve un torto o di chi sente odio verso un’altra persona, è capire, o meglio arrivare a “sentire”, che esiste una ragione se si incontra una persona piuttosto che un’altra, che c’è un motivo, e anche potente. E che questo è il proprio karma.
Se una situazione crea sofferenza, è solo e nient’altro che l’espressione del karma. E per cambiare il karma ci vuole tempo, fatica, Daimoku. Molto, molto Daimoku. […] D’altra parte soffrire, e quindi provare la sofferenza che deriva dall’«incontrarsi con chi si odia», come scriveva Nichiren Daishonin, è umano. […] Quello che dobbiamo pensare è che è troppo facile essere sereni tra persone che ci rendono sereni; il vero risultato si ha quando riusciamo a non recepire l’odio, o almeno il fastidio, al cospetto di persone che non ci piacciono.
Invece di picchiare gli altri perché ci si sente stressati, vuoti e inutili perché uguali a tutti; invece di farsi a fette mani e cosce perché ci si odia fino all’inverosimile, si potrebbe fare come fa il vecchio giornalista nel filmSostiene Pereira. Alla brutale uccisione del suo giovane amico, pianta un casino memorabile. Ma costruttivo. Di quelli che fanno la storia e che le fanno poi raccontare (alla storia) di come la gente comune si oppone ai soprusi, alla violenza, alla barbarie della dittatura.
(Rory Cappelli)
Doversi separare da chi si ama
[…]
Il dolore di perdere qualcuno è un dolore grande, legittimo, umano, ma se blocca la vita propria o di altri è un dolore che lacera, distrugge. Un dolore dietro il quale si annida spesso il non volere accettare l’esistenza per quello che è, cioè dinamismo, evoluzione, trasformazione. Sono tanti fra santi, saggi e filosofi ad averlo detto con diverse parole: tutto cambia, e nulla è costante, come un fiume che non cessa mai di scorrere. […] «Non c’è vita più nobile - scrive Ikeda - di quella di una persona che supera una tragedia personale e prosegue lasciando dietro di sé tale risultato per guardare al futuro».
Non si tratta di diventare sordi al distacco, alla separazione da cose e persone amate. Non si tratta neppure di diventare automi capaci di rimuovere i propri sentimenti. […] «Sebbene io avessi ormai da tempo cessato di pensare al mio paese natale – si legge in una lettera di Nichiren Daishonin – ora, vedendo queste alghe nori, mi tornano in mente tanti ricordi che mi rattristano. Sono le stesse alghe che tanto tempo fa vedevo sulle spiagge di Kataumi, di Ichikawa e Kominato. Provo uno strano risentimento vedendo che il colore, la forma e il sapore di queste alghe sono rimasti immutati mentre i miei genitori sono scomparsi, e non riesco a trattenere le lacrime».
Dove sta allora la linea di separazione tra un comportamento umano e un comportamento che logora quel che di umano è in noi? […] Spesso non si rimpiangono le persone per quello che erano, ma per quello che noi eravamo con loro accanto. Il problema è che noi abbiamo basato la nostra serenità sulla loro presenza e soffriamo perché senza di loro ci sentiamo persi. […] Recitare Nam-myoho-renge-kyo non rende immuni dal dolore, ma permette di costruire legami e relazioni d’amore basati sulla Buddità e non sull’egoismo o sull’utilitarismo. Inoltre, è possibile utilizzare il dolore di una separazione per cercare di comprendere cosa intendeva Nichiren Daishonin dicendo che Nam-myoho-renge-kyo è la gioia delle gioie. Essere buddisti non significa fare finta di non soffrire per le cose più naturali di questo mondo: significa sedersi dinanzi al Gohonzon, fossimo anche in lacrime e pieni solo di rimpianti, rabbia, sofferenza, e cercare dentro di noi una spiegazione e un sollievo al dolore che stiamo provando. Perché questa persona non c’è più? Su che cosa era basato il nostro legame? Come posso fare per cambiare il mio karma di soffrire per una, dieci, cento separazioni? Che cosa intendeva dire il Daishonin con il fatto che la vita del Budda è eterna? Ma se noi stessi siamo Budda, allora vuole forse dire che… Impareremo a conoscere, a sentire, a capire. A crescere, ad apprezzare, e perfino a ringraziare. Non ci sarà nessuno, con noi, in quel momento, a sostenerci. Ci sembrerà di cadere in un burrone profondo quanto il vuoto che proviamo dentro. Ma se per una volta proviamo a lanciarci, scopriremo che anche noi possiamo volare.
Abbiamo dieci, cento, mille vite davanti – e un Gohonzon dentro – per capire come fare.
(Marco Bartolotti e Lucy Currò)
Il disordine delle cinque componenti
[…]
Soffro ogni volta che c’è separazione fra me e me. Fra quello che sono e quello che sento. Fra quello che sento e quello che giudico buono, fra quello che giudico buono e quello che desidero. Fra quello che desidero e quello che sono capace di fare.
Soffro quando c’è disordine fra le cinque parti di me. Perché io sono cinque.
[…] Nichiren ha scritto: «On significa aggregato e il primo aggregato è la “forma”, che è tutto ciò che i sensi percepiscono. Il secondo è la “percezione” che significa accettare o prendere qualcosa dentro di sé. Il terzo è la “concezione”, che secondo il Kusha-ron è la formazione di un’immagine mentale. Il quarto è la “volizione”, che significa agire. Il quinto è la “consapevolezza”, che significa discernimento».
[…] Forma, percezione, concezione, volizione e consapevolezza non hanno un ordine, non seguono una linea di tempo. Sono tutte continuamente presenti: sono cinque, funzionano sempre, anche quando sembra di no. Ma perché è così difficile farle andare d’accordo? Il corpo desidera una cosa e la testa un’altra. Soffro. Non riesco a fare quel che ho deciso. Sto male. Sarebbe utile smettere di fumare ma non mi va. La depressione mi inchioda al divano e dentro sento una voglia di correre che impazza. E tutte le altre possibili forme di separazione da sé. Ognuno immagini le sue.
Io so che mi piacerebbe che le mie cinque parti viaggiassero sicure e rapide come quando i ciclisti di una stessa squadra si danno il cambio in testa al gruppo per tagliare l’aria a turno e arrivare più presto che si può. Lo so.
È che non solo ognuno di noi è particolare e unico per come si combinano continuamente i suoi cinque “io”, ma è anche differente a seconda dello stato vitale in cui si trova.
La cosa si complica: i “cinque go-on” combinati coi “dieci mondi”.
[…] Sono nel mondo d’inferno. Il corpo è contratto, nervoso. Vorrei uscire, ma non posso. Dovrei uscire ma è meglio di no. Quando i nostri aggregati funzionano basandosi sul mondo d’Inferno è lui a guidare. E così per tutti gli altri mondi. I cinque go-on formano un essere vivente capace di sperimentare tutti i dieci mondi possibili ma capace anche di trasferirsi istantaneamente in uno degli altri nove.
Sono nel mondo di Bodhisattva. Il corpo è disteso, sereno perché ho deciso che sia così. Voglio uscire e lo faccio. I miei “vorrei” e i miei “voglio” sono dalla stessa parte.
Con questa chiarezza si può vivere e ogni azione a quel punto è spinta dal desiderio autentico che tutte le parti di sé si accordino e che tutti quelli che ci circondano condividano questo stato. […] Sentirsi cioè partecipi della vita universale, non guardando dal fosso dei pregiudizi creati dalla nostra mente illusa, ma dal monte della nostra mente illuminata che sente gioia a essere partecipe della vita universale.
La vita non sono io e i miei dieci mondi. La vita è un po’ di più.
Scaturito alle 21:44 | link | commenti (1)
daimoku, il karma, le otto sofferenze
Le otto sofferenze (I parte)
«Questa, o monaci, è la nobile verità sul dolore: la nascita è dolore, la vecchiaia è dolore, la malattia è dolore, la morte è dolore, l’unione con ciò che non si ama è dolore, la separazione da ciò che si ama è dolore. Dolore è non raggiungere ciò che si desidera. I cinque legami sono dolore».
Il Budda Shakyamuni, nel suo primo discorso dopo l’Illuminazione, parlò innanzitutto della sofferenza. E otto sono le sofferenze principali da lui individuate. La sofferenza, in passato, era stata il motivo che l’aveva indotto a lasciare i piaceri del palazzo reale, il motore della sua ascesi. Ora, finalmente, poteva spingere gli esseri umani a comprenderne la natura e liberarsene.
La sofferenza – aveva scoperto il Budda – è connaturata alla vita, ma eliminarla vuol dire eliminare la vita stessa, perché il dolore nasce dal desiderio e questo si manifesta subito al primo apparire della vita. È legato al nostro stesso sentire, percepire. La psicoanalisi nel secolo scorso aveva intuito che il dolore è tale soprattutto perché siamo incapaci di dargli un significato. Quindi non è la sofferenza in sé a provocare l’esperienza dolorosa, ma qualcos’altro. Il piano dell’analisi si sposta così dall’oggetto al soggetto, o meglio – secondo il Buddismo – alla relazione tra noi e la sofferenza. Non allontanando la causa, l’oggetto che provoca la sofferenza – agire così ci farebbe vivere come Sisifo – ma lavorarci insieme per scoprirne la natura intima. Per illuminarlo.
La via da seguire è quella della trasformazione. Comprendere, attraverso la nostra natura di Budda – qui e ora – la vera realtà dei nostri attaccamenti, il vero aspetto della nostra relazione con quella sofferenza. E in tale dimensione («lì nella mia terra») saremo poi «liberi e a nostro agio» (Sutra del Loto, cap. XVI).
(Roberto Minganti)
Nascita
[…]
Nel Sutra del Nirvana, a proposito della nascita, sono descritte due sofferenze legate a due momenti differenti: il momento del concepimento, e il momento in cui il bambino sperimenta la sofferenza di uscire dal ventre materno e separarsi dalla madre.
Eppure, per quanto si riesca a parlarne, a comprenderne razionalmente le sfumature, quella della nascita rimane una esperienza lontana, di cui non si mantiene memoria, difficile da riconoscere tra le proprie emozioni. Almeno fino a che la si considera come un evento isolato, circoscritto al preciso momento di venire al mondo. Quante volte in realtà, nella vita, nasciamo? Quante volte capita di dire «mi sento rinata/o»? Come se in noi quella sensazione non fosse affatto sparita, ma rivivesse ogni volta nei momenti critici, quelli in cui tutto fa paura, e ogni cosa crea dolore, ogni tentativo sembra uno sforzo sovrumano. Proprio quando, invece, tutto sembra richiedere la nostra attenzione, la nostra concentrazione, la nostra capacità di sopportare e andare avanti fino all’uscita dal “tunnel”.
Si tratta solo di un uso metaforico delle parole, oppure c’è un profondo, sotterraneo legame tra la sofferenza di nascere e quella di dover ogni volta “rinascere” di fronte a una situazione dolorosa, a un evento terribile, a un limite che si riconosce in se stessi e che non si riesce a superare?
E a nascere non si è mai soli. Si è sempre almeno in due. Io e mia madre, io e l’ambiente che mi accoglie, io e gli altri, io e il Gohonzon. Una causa interna, dentro di me, che mi spinge alla vita, ad affrontare le sofferenze di ogni nascita e rinascita, e una causa esterna che mi aiuta a crescere, a uscire da me stessa e manifestare nell’ambiente, e grazie all’ambiente, il potenziale di vita che le mie cinque componenti contengono. Anche questa è compassione. Anche il risvegliarsi dalla morte, dallo stato di latenza.
Nascere e rinascere dipende dalla compassione che ognuna, ognuno ha coltivato in sé.
(Manuela Vigorita)
Vecchiaia
[…]
Il malessere con cui si guarda alla vecchiaia deriva anche da una visione materialistica della vita. E del tempo. […] Il ciclo produttivo della società è governato dal tempo. Ogni cosa ha la sua durata, prevista, pianificata strategicamente. Definita nei costi. In una civiltà dei consumi che sembra rendere tutto un bene finito, misurabile, contingente. Anche la vita. Nient’altro che un bene deteriorabile. Spesso anche prima della vecchiaia, se non si ha fortuna, se si è nel posto sbagliato e non si fa a tempo a renderlo il posto più giusto del mondo, se si va in guerra, se si è vittime di se stessi.
Cosa faremmo perché quella vecchiaia così spesso negata potesse essere vissuta da tutti quelli che non ce l’hanno fatta, per fame, per guerra, per assenza di diritti civili, per violenza, per debolezza, o per altri motivi, segreti anche a loro. Chissà come sarebbe da vecchio Hendrix, o Fassbinder, o Pasolini, o Virginia Woolf o Che Guevara o Marilyn Monroe…
Quanti meravigliosi vecchi e vecchie ci siamo persi, quanti ce ne stiamo perdendo.
[…] Come tutte le sofferenze, quella della vecchiaia ha origine da ciò che il Buddismo chiama le cinque componenti. […] Sebbene il declino fisico sia un fatto oggettivo, sembra sia proprio l’attaccamento a quella configurazione temporanea che noi siamo, e che si vorrebbe fissare per sempre, uguale a se stessa, a essere in disarmonia con la Legge della vita, in cui tutto cambia, diviene, ha relazioni che sfuggono ai sensi. Viene da chiedersi dove sia la vecchiaia, e chi sia vecchio davvero. Se lo sia chi ha più anni alle spalle o chi eredita un mondo più vecchio. Se sia più vecchio chi nasce oggi, quindi, perché ha tutti gli anni del mondo. Ma allora sarebbero vecchi i giovani. E l’ultimo nato di ogni momento sarebbe il più vecchio di tutti.
[…] Dunque cos’è “vecchio”? È vecchio quell’attimo un attimo dopo, o è vecchio lasciarlo andare senza aver seminato qualcosa? […] Perché invecchiare bene è anche un atto creativo, di autonomia, di apertura mentale, di ampliamento dell’io. Uno degli aspetti più affascinanti del Buddismo è [...] quello di permettere di raggiungere una condizione vitale in cui quel futuro, inseguito o temuto da sempre, si mostri per quello che è: un atteggiamento mentale, un’apertura al mutamento, un’attitudine a mettersi in gioco. Per trasformare definitivamente se stessi, per essere vecchi e vecchie, infine, senza soffrire, senza nemmeno saperlo. Magari con un pizzico di follia infantile negli occhi.
(Vladimiro Conti)
Malattia
[…]
Normalmente la malattia viene vista come una alterazione delle funzioni del corpo. Sia nel caso di una banale influenza che in una malattia incurabile, è sempre e comunque il corpo che si ammala, ed è questo che si tende a curare. Guarire, vivere una vita normale, vuol dire ripristinare le funzionalità della macchina-corpo inceppata. L’equazione sembra semplice: se guarisco sarò felice.
Oggi le scienze mediche hanno dato grandi risposte alle sofferenze umane in termini di possibilità di guarigione da tante malattie un tempo ritenute incurabili.[…] Le malattie, come afferma Nichiren Daishonin, sono di varia natura, la più grave deriva dagli effetti del karma. Per poterla affrontare occorre quindi prendere coscienza di questo e non spostare il problema su un altro piano. […]
Alla malattia si può reagire in diversi modi. In modo passivo, quando si genera uno scompenso esistenziale tra ciò che si vorrebbe essere e ciò che si è, e la malattia diventa uno specchio distorto su cui si proietta la disillusione di un futuro diverso da quello sognato: se sono malato allora sono stato sconfitto dalla vita. In modo neutro, quando […] si fa finta di essere sani, e ci si comporta come se la malattia non ci riguardasse. Si continua a curarsi, ma non si prende coscienza del male. Anzi, in questo caso a volte si sviluppa un atteggiamento di competizione col mondo che induce a rapportarsi in modo arrogante e collerico, […] perché non si accetta la condizione di malato che ci appartiene.
In realtà la malattia è una componente della nostra vita e fa parte quindi della serie delle cose normali che dobbiamo affrontare. […]
Per il Buddismo di Nichiren Daishonin lo scopo primario dell’esistenza di un individuo è quello del raggiungimento della Buddità. In questo percorso di autorealizzazione e rigenerazione siamo in grado di pulire tutte le cause negative che risiedono nel karma individuale di ciascuno di noi. […] La sofferenza non sta, dunque, nell’essere malati, ma nella difficoltà di sradicare le cause che ci hanno condotto a vivere la condizione del malato.
Occorre quindi diventare consapevoli della responsabilità che ciascuno di noi ha della sua condizione di vita e far nascere nella profondità del nostro essere il desiderio di risvegliare la Buddità; il che vuol dire affrontare una vita piena e realizzata nonostante i limiti imposti dal nostro karma.
Questo risveglio ci porterà ad avere un rapporto corretto con la malattia trasformandola da limite esistenziale a occasione di crescita spirituale, che andrà a rinvigorire tutto il nostro essere.
(Mimmo Filippone)
Morte
Esistono tre tipi di sofferenza legati alla morte. La sofferenza di chi vive, la sofferenza di chi muore e la sofferenza di chi è morto.
La sofferenza di chi vive è provocata dal pensiero di dover morire, di non sapere quando e di non sapere che cosa succede quando si muore, oppure di sapere che quando si muore si deve lasciare questa vita e ogni cosa e chi si ama, e soprattutto dal pensare che la morte sia la fine di tutto.
La sofferenza di chi muore dipende dalle cause che provocano la morte, dallo stato vitale: è […] un passaggio in cui l’unica cosa che conta è come si è vissuta la propria vita, […] e quello che accade dipende esclusivamente da come abbiamo vissuto, da ciò in cui abbiamo creduto.
Come si sta dopo? La vita universale, l’energia cosmica, essere ricondotti fino alla fine dell’io personale per giungere all’io collettivo del cosmo: dipende come ci si arriva. Lo stato vitale rimane fissato in quello che avevamo al momento della morte.
Nichiren ci avvisa chiaramente: «Le sofferenze diventanonirvana quando si comprende che l’entità della vita umana non viene né generata né distrutta nel suo ciclo di nascita e di morte». […] Ma morte non è solo quando si muore. Ogni volta che ho paura è la morte. È il cambiamenteo, l’instabilità, la perdita, la separazione, la rovina, la distruzione, la condanna, la tragedia, il silenzio e le urla, è il freddo.
[...] È l’adesso che fa la differenza. Chi pratica il Buddismo può sperimentare nella sua vita che la morte è un aspetto dell’esistenza, non corrisponde alla fine della vita ma semplicemente a una trasformazione, a un passaggio. […] Nell’Ongi Kuden, in alcuni commenti al Sutra del Loto si legge: «[…] Cercare di separarsi dalla morte e dalla nascita è un’illusione che deriva dal credere che l’Illuminazione si possa raggiungere in un dato momento. Percepire chiaramente che nascita e morte sono due aspetti della vita eterna significa risvegliarsi alla consapevolezza che l’Illuminazione è eternamente dentro di noi. [...] Significa percepire che la nascita e la morte hanno sempre fatto parte della nostra vita».
(Anastasia Brandi)
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fede, daimoku, il karma, le otto sofferenze
Le frasi giuste nei momenti giusti
Sarà capitato a tutti, ne sono sicuro: hai un pensiero nella mente, una sensazione nella pelle, un'emozione nata da qualche parte e cerchi un modo per decodificarla, per interpretarla nella maniera migliore. Poi, magari casualmente, sfogli un libro, leggi un articolo da qualche parte e trovi proprio quella stessa emozione, quello stesso pensiero, la tua sensazione, soltanto detta con altre parole, proprio quelle che cercavi. A me è capitato, alcune volte, e sono volte che non dimentico, ancora. E anche ieri, dopo il gongyo mattitutino, pensavo - o meglio, assaporavo - quella sensazione di leggerezza e allo stesso tempo di carica interiore che dà la cerimonia del gongyo, eproprio ieri, la frase nella guida quotidiana di Ikeda (Giorno per giorno, Esperia edizioni) era la seguente: "Il Daishonin ci ha insegnato che attraverso la recitazione di gongyo e daimoku possiamo raggiungere uno stato vitale elevato in cui, pur restando nella vita di tutti i giorni, viaggiamo attraverso l'universo. Quando lodate il Gohonzon, la porta del vostro microcosmo si apre all'universo e voi sperimentate un'infinita gioia. Proverete un senso di soddisfazione e saggezza, come se l'infinito universo fosse nelle vostre mani".
Ecco. Le parole che cercavo, e che mai avrei trovato, forse. Ma la sensazione, è proprio questa. Provare per credere! ;)